Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione chiarisce come la vittima di malasanità (o i loro eredi) possa e debba dimostrare l’apporto che il defunto dava al bilancio familiare quando era in vita, così da poterne richiedere il relativo risarcimento.

La fattispecie
Un soggetto contrae una malattia professionale, dovuta dall’esposizione a polveri e sostanze tossiche inalati per la mancanza di mezzi di protezione predisposti dal datore di lavoro. A causa di questa malattia l’uomo viene a mancare. A seguito del decesso, i suoi eredi e familiari agiscono in giudizio al fine di veder riconosciuto il proprio diritto al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, da fatto illecito. Orbene, se anche in primo grado ed in appello il richiesto risarcimento veniva accordato, la sentenza di secondo grado veniva impugnata presso la Suprema Corte, dagli eredi del lavoratore defunto, per alcuni vizi della pronuncia relativi –in sostanza- al riconoscimento di alcune voci di danno nonché alla relativa quantificazione. Innanzitutto, i familiari sostenevano che la Corte di Appello avesse reso una motivazione non adeguata ai criteri di legge, dal momento che i giudici di secondo grado, pur richiamando le tabelle del tribunale di Milano, non aveva fornito alcuna risposta alle critiche avanzate, violando così l’obbligo motivazionale, essendosi gli stessi limitati a confermare la decisione di primo grado che, a sua volta, si era attestata sui valori intermedi del range in esse fissato, omettendo del tutto di rendere comprensibili le valutazioni articolate in relazione alla sofferenza interiore soggettiva di ciascun congiunto nonché delle ricadute dinamico-relazionali personali che il decesso dell’uomo (rispettivamente, coniuge e padre) aveva determinato alle loro esistenze.
Oltre a ciò  familiari si lamentavano del fatto che il giudice di secondo grado non aveva riconosciuto agli stessi alcune specifiche voci di danno come gli interessi compensativi derivanti dal ritardo col quale il debito di valore era stato liquidato. In particolare, gli eredi lamentavano il diniego della detta voce risarcitoria, fondato sulla assenza di prova delle modalità di investimento e, dunque, del lucro cessante che il ritardo avrebbe pregiudicato e questo, a dire dei familiari, è in contrasto con la giurisprudenza consolidata, la quale afferma che la prova del pregiudizio poteva essere raggiunta anche con presunzioni, senza necessità di dimostrare la concreta produttività delle somme liquidate. Da ultimo, ma non meno importante, i ricorrenti eccepivano che la corte territoriale si era limitata ad aderire acriticamente alla motivazione del tribunale che aveva ritenuto che la assenza di prova degli indici reddituali, sui quali rapportare in via presuntiva l’apporto del coniuge deceduto, impediva di riconoscere la posta risarcitoria richiesta.

Il principio di diritto
Il primo motivo veniva ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione, la quale, con sentenza n. 31549 del 2018, ricorda che sotto il profilo dell’obbligo motivazionale esiste il dovere, per il giudice di primo e secondo grado, di tener conto a fini risarcitori di ‘tutte le conseguenze’ derivanti al pregiudizio subìto, seppur con il ‘concorrente limite’ di evitare duplicazioni risarcitorie e di non oltrepassare la soglia minima di apprezzabilità. Ma con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte rammenta che ciò può essere correttamente realizzato dal giudice di appello anche attraverso il richiamo, sufficientemente articolato, alle statuizioni della sentenza di primo grado, purché il rinvio venga operato in maniera tale da rendere possibile il controllo della motivazione, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e della identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio.
La critica mossa dai familiari con riferimento al risarcimento degli interessi e della loro prova, invece, viene accolta. Gli Ermellini ricordano che, anche in passato con un orientamento consolidato, è stato chiarito che qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata per equivalente (cioè con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito) e tale valore venga poi espresso in termini monetari, che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva, è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno che questo provi essere stato provocato dal ritardo nel pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte, e riconosciuta dal giudice, mediante criteri presuntivi ed equità, qual è –ad esempio- l’attribuzione degli interessi ad un tasso stabilito, valutando tutte le circostanze oggettive e soggettive del caso. Secondo la Suprema Corte, pertanto, la corte territoriale aveva errato nel rigettare il motivo di appello col quale la sentenza del tribunale era stata censurata per l’omesso riconoscimento degli interessi compensativi, statuito –in sostanza- sulla scorta di un orientamento giurisprudenziale non condiviso ormai da tempo.
Viene accolta anche la tesi dei familiari in ordine alla prova presuntiva rispetto all’apporto l’apporto del coniuge deceduto al bilancio familiare, dal momento che secondo gli Ermellini, i giudici di primo e secondo grado avevano omesso di considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, i danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dal coniuge di una persona deceduta a seguito di un fatto illecito, e ravvisabili nella perdita di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che il defunto avrebbe presumibilmente portato, assumono l’aspetto del lucro cessante e quindi, in quanto tali, sono risarcibili se provati in via presuntiva. Nel caso di specie risultava provato che il defunto svolgeva un’attività lavorativa remunerata ed era incontestato che con essa egli contribuiva al mantenimento della famiglia. Il danno patrimoniale, pertanto, secondo la Corte deve essere liquidato sulla base di una valutazione equitativa circostanziata che tenga conto

Conclusioni
Attraverso tale sentenza, i giudici della Corte di Cassazione, quindi, concedono rilevanza probatoria esplicita alle prove presuntive ed al criterio dell’equità, aspetti che molto spesso, nelle cause di risarcimento del danno, non sono correttamente valorizzati.

 

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