A meno che il suddetto non provi (ex art. 2697 c.c.) l’esistenza del richiesto danno non patrimoniale

Il Tema in Discussione
Si discute se spetti o meno il risarcimento del danno non patrimoniale al marito, in caso di decesso della moglie, allorquando vi siano elementi che contrastano rispetto alla presunzione di sussistenza (tra coniugi non separati) di un progetto di vita in comune e di un vincolo affettivo, tenuto conto del fatto che il marito stesso aveva avuto una relazione extraconiugale coronata dalla nascita di un figlio.

Il caso pratico
La vicenda decisa dalla Suprema Corte con la pronuncia in commento trae origine da un sinistro stradale intercorso tra un mezzo agricolo non assicurato e un’autovettura guidata da una donna, deceduta a seguito dell’incidente e delle lesioni riportate.

I giudici del merito, nel ricostruire la dinamica del sinistro, ritengono sussistente un concorso di colpa tra i due conducenti. Da qui la decisione di ritenere legittima la pretesa risarcitoria avanzata dai familiari della donna. In particolare, il ristoro viene riconosciuto al padre, ai figli e ai fratelli della donna, ma non al marito.

Il rigetto della domanda del coniuge si giustifica, per la Corte territoriale, stante la relazione coniugale intrattenuta all’epoca dall’uomo, dalla quale era anche nato un figlio tre mesi prima della morte della moglie. Elementi che contrastano rispetto alla presunzione di sussistenza (tra coniugi non separati) di un progetto di vita in comune e di un vincolo affettivo.

Di fronte a circostanze che, secondo comune esperienza, costituiscono sintomo del deterioramento e della cessazione di un rapporto coniugale, sarebbe stato onere del marito dimostrare la perdurante sussistenza tra i coniugi, benché non legalmente separati, di un vincolo affettivo. Prova non fornita nel caso in esame.

Secondo l’uomo, invece, i giudici di merito avrebbero inopinatamente equiparato il mero deterioramento alla cessazione del rapporto affettivo, negandogli qualsiasi forma di ristoro del pregiudizio morale.

E comunque per il marito la relazione extraconiugale e la nascita di un figlio naturale non sarebbero elementi univoci rispetto all’insussistenza delle sofferenze morali subite in conseguenza della morte del coniuge.

La Sentenza della Corte di Cassazione n. 31950 dell’11 Dicembre 2018
La Suprema Corte ritiene, nella pronuncia in commento, di condividere l’impianto motivazionale della Corte territoriale.

Il fatto illecito costituito dall’uccisione di uno stretto congiunto, appartenente al ristretto nucleo familiare (genitore, coniuge, fratello), dà luogo a un danno non patrimoniale presunto. Questo consiste nella sofferenza morale che solitamente si accompagna alla morte di una persona cara e nella perdita del rapporto parentale e conseguente lesione del diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che ordinariamente caratterizza la vita familiare.

Ordinariamente, infatti, si ritiene sussistente tra detti stretti congiunti un intenso vincolo affettivo e un progetto di vita in comune e dunque, nella normalità dei casi e in virtù di detta presunzione, il soggetto danneggiato non ha l’onere di provare di avere effettivamente subito il dedotto danno non patrimoniale.

Ciononostante, tale presunzione semplice può essere superata da elementi di segno contrario, quali la separazione legale o (come nel caso di specie) l’esistenza di una relazione extraconiugale con conseguente nascita di un figlio tre mesi prima della morte del coniuge (relazione extraconiugale che costituisce evidente inadempimento all’obbligo di fedeltà tra coniugi di cui all’art. 143 c.c.).

Detti elementi non comportano, di per sé, l’insussistenza del danno non patrimoniale in capo al coniuge superstite, ma impongono a quest’ultimo, in base agli ordinari criteri di ripartizione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. (essendo stata, come detto, superata la presunzione), di provare di avere effettivamente subito, per la persistenza del vincolo affettivo, il domandato danno non patrimoniale.

Nella specie, conclude la Cassazione, la Corte territoriale, con valutazione non sindacabile in sede di legittimità, ha ritenuto che l’uomo non avesse fornito detta prova e, correttamente, ha rigettato la domanda risarcitoria.

 

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